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lunedì 24 novembre 2008

25/11/2008: Simone Giacomelli ricorda Mario Giacomelli

"Io non credo che la morte chiuda certe storie, perché, se c'è tanto di strano in questi occhi che vedono, e in queste orecchie che sentono, vi è posto per altre cose strane che non capisco."
(Mario Giacomelli 1925-2000)



Sono passati otto anni da quel 25 novembre 2000, giorno della scomparsa del grande Mario Giacomelli; anche quest'anno, come negli otto anni precedenti, la figura del Maestro della Fotografia verrà ricordata dalla sua città, Senigallia, con manifestazioni, omaggi, mostre, proclami e parecchie parole...

Su Giacomelli credo si sia già detto tutto e fatto vedere, forse, anche troppo.

Ho avuto l'occasione, qualche tempo fa, di incontrare il figlio Simone: non lo conoscevo ed ho avuto con lui un approccio "da persone normali"... e sì, perché quando si incontra il figlio di un così illustre personaggio ci si aspetta che questi si dia perlomeno "un po' di importanza".
Niente di tutto questo: Simone mi ha dato l'impressione di essere una persona davvero "semplice", nel senso buono della parola.

Qualche giorno fa mi venne un'idea, visto l'approssimarsi dell'importante anniversario: "perché non chiedere la disponibilità a un'intervista al figlio di Mario Giacomelli?".
Una volta ottenuto l'ok da Simone (cosa che mi ha reso particolarmente felice) ho quindi provato a buttare giù alcune domande, ma mi sono trovato in grossa difficoltà; non mi andava di fare una cosa troppo commemorativa, ma di realizzare una raccolta di pensieri sparsi, non necessariamente legati uno all'altro, un ricordo "da figlio" di semplici momenti ed emozioni vissuti insieme a suo padre; un ricordo di un grande fotografo anche senza necessariamente parlare di fotografia.

...e Simone (che ringrazio) ha scritto questi pensieri...


Uno scatto su Mario, mio padre

Odio le commemorazioni, amo ogni giorno ricordare.

Mi ricordo il profumo del suo sigaro, ma prima ricordo i pacchetti di sigarette senza filtro che si accumulavano in camera oscura.
Ricordo ogni volta che abbiamo litigato, ogni volta che l’ho deluso, quando ci siamo tolti il saluto e quando ci siamo resi conto che non c’era nient’altro di vero che noi due, il resto era una marea sorda, cieca e vociante.
Non ci siamo mai detti "ti voglio bene", mai abbracciati, ogni emozione brucia dentro, ogni colpo della vita lo assorbiamo in silenzio e quando si può lo mostriamo.
Papà fotografava, ma non era fotografo, quando si guardano le sue immagini si vedono paesaggi, bambini tra oscure signore o nei campi ad aiutare il sole con il loro sorriso, pretini che ballano e anziane signore che aspettano la morte.

Ma se invece di guardare proviamo a leggere quelle immagini, sentiamo dentro qualcosa che non sappiamo dire, che non occorre dire; quando leggiamo quelle immagini vediamo attraverso gli occhi del fotografo, possiamo toccarne l’anima o come vogliamo chiamarla, e ci accorgiamo che quello che leggiamo in quei pezzi di carta impressionati dalla luce ha a che fare con la nostra vita, i nostri rapporti con il mondo.

Mi ricordo i sabati e le domeniche a girare in macchina con lenzuola, maschere di gomma, cani di pezza e una scatolina di pastelli ad olio utili ad evidenziare certi segni che il tempo lascia sui muri, sulle lastre di ferro d’un cantiere navale e nascosti ovunque, si, ma non era un fotografo, perché quello che guardava assumeva le sembianze della sua mente e quei rettangoli di carta 30x40 appesi nei musei, nelle gallerie, negli uffici, nelle case di mezzo mondo, sono foto fatte dalla realtà a Mario Giacomelli.
Se si stava con lui in silenzio, seduti ad un tavolo, ogni tanto lo si sentiva borbottare “Mh!”, questo era il suono d’ogni sguardo sulla vita attorno a lui, quando la metteva a fuoco senza macchina fotografica.

Ricordo le sue maledizioni scagliate contro il tempo troppo transitorio e sono tutte tornate indietro, perché il tempo, il flusso traumatico del tempo, come papà diceva, è implacabile e sordo.
Il tempo è la vita che Giacomelli ripeteva a tutti essere meravigliosa e a qualcuno confessava, la vita può tradire, come una donna, o un amico, può essere il bianco delle foto, luminoso e affamato di ogni cosa superflua, ma che non tocca le nere cicatrici del mondo, che siamo noi e tutto quello che facciamo.

Io ricordo quando mi disse "E’ tutto inutile, tanto vi dimenticherete tutti" ed è l’unica cosa su cui si è sbagliato.




LA PARTENZA DAGLI OCCHI (a mio padre)

Piccola terra,
ti tengo tra le labbra
desiderando mordere i velenosi anelli di Saturno,
non questo inginocchiatoio
di pascoli e dirupi,
non questa calca di luce.
Piccola terra,
ti vedo tutta nel giusto attimo della partenza,
in cui si dissolve ogni nome,
per ridare all’eterno
la sua continuità.
Restituisco il mio frammento di mappa
al deserto custode, ora,
non ho che un pigiama a righe
stirato solo sul petto.
Sarò per alcuni
un debito di fiori,
per altri un debito impagabile d’amore,
per me, il sottile infotografabile.



Questo articolo è stato pubblicato su "La Voce Misena" n°41/2008.
Leggi anche: Mario Giacomelli: 25/11/2000 - 25/11/2007

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